SIII2013 – 11 Aprile 2013: Valori della terra / Gli abstracts

SIII2013 – 11 Aprile 2013: Valori della terra / Gli abstracts

L’11 APRILE DALLE 9:30 ALLE 12:45 E DALLE 14:30 ALLE 18:30, Università degli Studi Milano-Bicocca Palazzo U6 4 Aula Martini

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L’acqua scorre, la terra no. Una breve introduzione.

Mauro Van Aken

E’ abbastanza scontato dire che la terra non scorre: anzi la terra è stata una delle risorse più “fissate” nella storia dell’accaparramento, a partire dalle colonie. Come è scontato che l’acqua fluisca, dinamica che ha sempre imposto istituzioni complesse e commons in tante culture, proprio perché il fluire non rispetta le  frontiere, le forme di proprietà rigide e centralizzate, ed ha portato a complessi sistemi di cooperazione e di distribuzione. A partire da Land Grab, vorremmo problematizzare questa nozione proprio per rendere visibile ciò che spesso nei dibattiti attuali rimane nascosto: da ciò il focus sui valori della terra. Valori costruiti economicamente che non sono disgiungibili dai valori, saperi, percezioni, immaginari, contesti ecologici in cui sono imbricati. E non sono disgiungibili da acqua, come la risorsa più relazionale, e dai beni che vengono individuati come “risorse”.

Le dinamiche di accaparramento della terra sono antiche, hanno una lunga storia globale, una genealogia coloniale e forme di intensificazione postcoloniale. Il fenomeno del Land grab non è nuovo se non in termini di scala, di reti tecnologiche, di intensità incorporazione del capitalismo di risorse e territori, di dinamiche di mercificazione, di spoliazione  e “svalutazione” della terra, come riduzione a “roba” economica, ma anche di retoriche di sfruttamento nei modelli di sviluppo.

Un’altra chiave che proponiamo, per meglio comprendere i processi contemporanei, sono le dinamiche che coinvolgono i “piccoli” contadini, su “piccoli” territori che son sempre più un affare globale, per focalizzare, con il lavoro etnografico, su contesti di contese di terra e valori della terra. E la mercificazione delle risorse naturali è il primo processo storico e contemporaneo che va messo in luce, a casa nostra come altrove: un nuovo immaginario tecnico ed economico della terra, la sua sconnessione dalle storie non solo agrarie ma rurali, dalle “agri/culture”, i nuovi mondi sociali dei saperi esperti e dei modelli di sviluppo che spesso hanno “naturalizzato” dinamiche e contese per la terra e “nei” campi,  privatizzando i saperi della natura e delle risorse. L’immaginazione modernista della natura incontra, sulla terra e nei campi, una pluralità di saperi locali, savoir faire, sistemi di lavoro, misure e rappresentazioni della terra, commons, come sistemi di gestione e distribuzione e di lavoro, un incontro che esige di re-immettere questi processi nelle dinamiche culturali.

L’acqua scorre e la terra no: impossibile inoltre leggere le dinamiche contemporanee di appropriazione della terra, tanto più nella produzione agro-alimentare, senza seguire le vie e le contese per l’acqua che alla terra sono connesse. Inoltre, questa dinamica va situata nei processi di deterritorializzazione, di delocalizzazione (dell’acqua per esempio, che può scorrere), di crisi rurale, di sovranità mobili di gruppi multinazionali, spesso parassitari nei confronti delle risorse. La terra non si può spostare ma si può reinventare, mercificare, vendere, appropriare a distanza: ma utile è rendere visibile le dinamiche di azione e appropriazione a fronte di queste nuove logiche della terra, per riportare l’attenzione alla dimensione locale, ai saperi e ai sistemi di lavoro rurale, alle strategie nel far fronte a questi nuovi “immaginari”, molto terra terra.

 Coltivare foreste di benzina. Energy crops, immaginari ambientali e nuovi valori della  terra nella Thailandia contemporanea

Amalia  Rossi (Università Milano Bicocca, LANAMB)

La rincorsa all’accaparramento delle terre del pianeta è oggi accelerata dal boom dei bio-carburanti, che U.S.A., Cina, E.U., Brasile, India considerano un’alternativa diplomatica ed eco-sostenibile ai carburanti fossili. Negli ultimi anni le agenzie economiche e governative di queste  superpotenze si sono fatte promotrici della diffusione di un immaginario ambientale che esalta le presunte caratteristiche ecologiche dei biocarburanti. La rivoluzione agro-energetica appena inaugurata tuttavia, è solo in apparenza “eco-sostenibile” e trascina con sé importanti conseguenze socio-ambientali. Il presente contributo  si interroga su questi temi a partire dalla discussione di dati etnografici che testimoniano la nascita di nuovi miti ambientali(sti), di nuovi immaginari e significati della natura e del nuovo valore relativo acquisito dalla terra e da altre  risorse cruciali a fronte della rivoluzione agro-energetica.

Il boom degli energy crops,  da cui si traggono le bio-masse per la produzione dei bio-carburanti, ha avuto un impatto immediato sui mercati agricoli mondiali. Nei paesi dell’ASEAN una rapida sostituzione dei food crops con gli  energy crops ha esacerbato la competizione per i terreni agricoli e forestali. La situazione del Regno di Thailandia è emblematico: qui la sottrazione di terre alla produzione di materie prime alimentari per la “coltivazione di benzina” ha prodotto un corrispondente aumento dei prezzi dei grani alimentari, aggravando le condizioni delle popolazioni disagiate.  In questo scenario – che accomuna la Thailandia ad altri paesi – l’impatto socio-culturale della rivoluzione agro-energetica sui contesti locali va esplorata con urgenza perché, per molti versi, si è anche di fronte ad una rivoluzione culturale che si innesta (appesantendole) su strutture storiche della disuguaglianza tra classi socio-economiche e su forme latenti di
alienazione materiale e morale. In particolare, nel nord del paese, alla rivalutazione economica della terra come “spazio puro” e “spazio vuoto”, corrisponde una svalutazione della terra come “luogo”, ovvero come spazio spurio, saturo di “nature/culture”, densamente relazionale, inevitabilmente politico.  Si vedrà dunque, come il valore ecologico positivo dei bio-carburanti rinnovabili si scontri già con la finitezza materiale e immateriale della “risorsa terra”, immensa ma non rinnovabile né completamente svuotabile delle trame sociali e ecologiche che storicamente l’attraversano.

La terra di chi? Conflitti socioambientali sull’appropriazione della terra nel Brasile contemporaneo

Manuela Tassan (Università Milano Bicocca, LANAMB)

 In Brasile, il fenomeno del land grabbingl’accaparramento di terra – ha radici profonde. Nel 1982, Victor Asselin, ripercorrendo l’annosa questione fondiaria in Amazzonia, scriveva che la grilagem – termine portoghese usato per indicare l’appropriazione violenta di terre pubbliche da parte dei grandi latifondisti – era un problema strutturale della macro-regione nota come Amazzonia Legale. Letta come epifenomeno di un preciso modello economico e di una certa configurazione sociopolitica, la grilagem mostrava così i riflessi di un’ambigua collusione tra potere pubblico, all’epoca dittatoriale, e interessi privati. Oggi, sebbene in un contesto profondamente mutato in senso democratico, ritroviamo questo controverso legame tra politiche statali o federali e interessi privati tanto nell’erosione incontrollata di porzioni di foresta – tutt’altro che vazia (“vuota”, disabitata), come invece vorrebbero le retoriche sviluppiste – per farne coltivazioni industriali di soia o allevamenti di bestiame su grande scala, quanto nei cambiamenti introdotti nel Nuovo Codice Forestale, divenuto più lasco, o nella costruzione di faraoniche opere pubbliche di grande impatto sociale, come la centrale idroelettrica di Belo Monte. D’altro canto, a partire dalla Costituzione democratica del 1988, è cresciuta considerevolmente la visibilità e la capacità d’azione politica di soggetti collettivi locali che, talvolta costituendosi in veri e propri movimenti, rivendicano il riconoscimento del diritto di accesso alle loro terras tradicionalmente ocupadas (“terre tradizionalmente occupate”). Date queste premesse, l’accaparramento di terra tiene ancora banco nel dibattito pubblico, configurandosi come terreno di scontro giudiziario.

Tentando di offrire, senza alcuna pretesa di esaustività, una panoramica di questi fenomeni, l’intervento, da una parte, intende discutere il complesso ruolo giocato in tali conflitti socioambientali dalla legislazione ambientale. Dall’altra, si propone di offrire una riflessione sul concetto di commons – bene comune – a partire dall’analisi di pratiche e valori locali in cui si intrecciano forme di possesso individuale di alcuni elementi naturali e strategie di uso comune di altre risorse.

Il territorio conteso e il conflitto ambientale: il caso della TAV in Val di Susa

Alfredo Alietti (Università degli Studi di Ferrara) e Dario Padovan (Università degli Studi di Torino)

Il pluridecennale conflitto apertosi in Val di Susa sulla realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità (TAV) rappresenta un caso paradigmatico nell’analisi del rapporto tra territorio, natura e confronto tra istituzioni, movimenti e abitanti. La complessità e l’articolazione degli eventi legati a tale progetto mette in luce una varietà di attori, relazioni, retoriche, saperi e pratiche che nel tempo hanno delineato i confini mobili delle dinamiche conflittuali. Al centro della contesa si pone classicamente la diversità tra le visioni e la prospettiva degli abitanti, i quali rivendicano il diritto di decidere le sorti del proprio eco-sistema, e quelle degli apparati amministrativi ed economici sovralocali che, viceversa, affermano l’idea dell’interesse generale. All’interno di questa cornice esemplare nelle dinamiche di conflitto ambientale emerge la figura dell’esperto quale riferimento per sostenere le ragioni contrarie e favorevoli. Il sapere esperto diviene il fondamento discorsivo mediante il quale gli attori non umani (la tecnologia, la natura) assumono un ruolo determinante nella legittimazione delle rispettive posizioni. L’orizzonte discorsivo su basi scientifiche alimenta e rafforza il movimento d’opposizione creando i fondamenti di una contro “expertize” in grado di sostenere la protesta e innescare un processo di “democratizzazione della scienza”.

Nel confronto tra queste due polarità fondate su un ordine del discorso scientifico, il conflitto sulla TAV mette a fuoco la dialettica negativa tra interessi particolari e interessi generali fondate su un’idea differente di natura e territorio.

Dinamiche di conflitto e di appropriazione della terra in Togo. Dall’introduzione dei cash crops alla registrazione dei titoli fondiari

Marco Gardini (Università di Milano-Bicocca)

A partire dall’analisi di come l’introduzione dei cash crops e la registrazione dei titoli fondiari hanno rimodellato le forme di accesso alla terra in Togo nel corso dell’ultimo secolo, questo studio indaga la pluralità di strategie che soggetti in asimmetriche posizioni di potere hanno storicamente utilizzato per vedersi garantire particolari diritti di appropriazione della terra. Queste strategie vedono opporsi valori, pratiche e norme che afferiscono a differenti regimi di legittimità. Ciò comporta che l’accesso alla terra e le forme di proprietà fondiaria risultino centrali in quanto arene in cui particolari strutture di potere, assetti sociali, ideologie ed istituzioni vengono attivate, criticate o legittimate, in un contesto caratterizzato da un forte pluralismo giuridico e un incremento di tensioni sociali legate all’accesso alla terra. L’analisi dei conflitti fondiari – lungo gli assi del genere, della generazione, del reddito e dell’“autoctonia” – emerge dunque come luogo privilegiato per comprendere l’articolazione dei “fasci di diritti” esercitabili da soggetti differenti su una stessa parcella, le dinamiche di rinegoziazione sociale dei criteri locali di appartenenza, i significati ambigui che la terra assume negli scenari economico-politici contemporanei e le forme di legittimazione delle autorità deputate alla risoluzione dei conflitti.

L’arte dello spossessamento. Estrazione mineraria e genealogia coloniale del ‘furto’ della terra in Sierra Leone

Lorenzo D’Angelo (Università Milano Bicocca, LANAMB)

In questa presentazione vorrei discutere la storia di un furto che si ripete di continuo in Sierra Leone sia con l’impiego di mezzi economici che di mezzi extra-economici. Questa storia procede a ritroso nel tempo. Essa inizia infatti con i recenti investimenti delle multinazionali della produzione agro-energetica e termina con un altro “inizio” o “origine”: l’avvio del processo di accumulazione per spossessamento innescato negli anni Venti e Trenta dalla scoperta coloniale dei minerali (ferro, platino, oro, rutilio e diamanti). In entrambi i contesti storici emergono alcuni significati specifici, ma impliciti sulla proprietà ed i valori della terra che meritano quindi di essere evidenziati: terra nullius, terra sotto-utilizzata, terra improduttiva, terra che deve essere valorizzata, o resa economicamente produttiva per affrontare i problemi dello sviluppo e della povertà locale. E’ a partire da questo vocabolario e da questa retorica dello sfruttamento che, fin dall’epoca coloniale, è stata impostata la partita giocata sull’accaparramento dei beni comuni. Dagli anni Trenta in poi, infatti, il processo di spossessamento di questi beni è proceduto attraverso molteplici e variegate strategie di governo. Queste strategie avevano di mira la messa a valore delle superfici sfruttabili (terrene e idriche), ma anche il pieno controllo della popolazione locale, ostacolo allo sfruttamento monopolistico e, al tempo stesso, principale bacino di approvvigionamento della manodopera mineraria. Questo processo contraddittorio e paradossale emerge chiaramente nel caso dell’estrazione dei diamanti, una risorsa che, di fatto, è stata “re-inventata” come bene appartenente alla Corona inglese attraverso un processo legale di “de-naturalizzazione” delle pietre stesse.

Descriverò pertanto alcune delle principali tecnologie di governo impiegate per regolare le condotte individuali e collettive della popolazione sierra leonese e per legittimare sul piano economico e morale lo sfruttamento delle risorse minerarie presenti nel sottosuolo della Sierra Leone. Il mio obiettivo è mostrare come le attuali proposte per “valorizzare” i “terreni incolti” o “sotto-utilizzati” entrano solo in conflitto con i diritti e gli usi locali della terra, e non possono produrre né garantire quei risultati che tutti si aspettano: riduzione della povertà e “sviluppo” del Paese.

Property and value in land: from agrarian to rural history in bilad as-sham and bilad al-yaman

Martha Mundy – London School of Economics – Thimar Network

It was generous to invite me to this meeting although I stated from the outset that I had little new research to present and nothing at all on the topic of ‘land grabs’.  This term, so far as I understand, is used to refer to large-scale acquisition of land in countries of the ‘global south’ by non-national capital, for the purposes of developing mechanized agriculture or of pillaging organic life or sub-soil minerals for export markets. But Mauro Van Aken thought that nevertheless I should contribute by speaking to work I have done (and am doing) on the history of the objectification of land and of the circuits of production within which land is attributed value. All of this work has been in the Arab East between Yemen (bilad al-yaman) and Greater Syria (bilad as-sham), a part of the world which has its own place in world history and in the histories of capitalism and imperialism.

‘Property’ as we use the term in the social sciences is a set of relations constituting an object (thus called ‘property’) that can be exchanged according to the conditions of its very objectification.  In our attempt to understand the restructuring of property in the late Ottoman Empire we analyzed the process in terms of the meeting of three ‘moments’: law, administration and production.  Value, however much its attribution is tied up with the technical objectifications that make possible property, remains a notion inconceivable outside the relations within the ‘moment’ of production.  I shall explain this with a controlled comparison set out in our Governing Property: under one and the same system of law and administration could be observed a radically different valuation of land in villages with divergent social systems of production only some 30 kilometers apart. The very possibility of such a difference in the ‘value of land’ reflects the existence of real differences in village agrarian organization, that is, the organizational centrality of domains of production/ reproduction outside a unified valuation by money under global capitalist production/ circulation.

Thus, it is possible to write of an ‘agrarian history’ of a meaningful kind as late as the early twentieth century in parts of bilad as-sham. So too it is possible to do so for bilad al-yaman, although the sources are as yet rather more restricted. But contrary to the title I earlier gave, I suspect that I shall need to abandon the attempt to speak to the Yemeni material, although I am welcome that you ask me about that further contrast, which may have more in common with Ethiopia than with the rest of the former Ottoman lands.

To return to bilad as-sham, in the work on which I have only just begun with Rami Zurayk, Cynthia Gharios and Farah al-Samarra’i in South Lebanon, Qada Saida, the law was identical to that in Qada’ `Ajlun examined in Governing Property. But (political) administration and at points production were differently structured, especially in the lands registered as mazra`as, not as villages.  Here lie issues more akin to those with which many of you may be concerned in ‘land grabs’: the way in which the process of land registration, of itself a seemingly neutral process of who cultivated what under what conditions, was taken as an opportunity for the establishment of property rights by regional political elites; and the objectification of land as a transactable commodity independent from the (re)production of those who once farmed it.  Here the relevant construction/registration of property goes back to the 1860s and 1870s.  In that the leaders of the regional political administration were to gain title to large areas of land although not uniformly throughout the region. The relations between administrative/landlord families and commercial capital were more prominent in this region close to the Mediterranean ports than in the inner southern Hauran, but it was only in the 1940s that large-scale ownership passed to commercial merchant capital during the French Mandate of Lebanon.  Money made by Lebanese in Africa began to play a major role in land transactions from the 1940s and has continued to do so until today.  Unlike Syria or Iraq, after independence Lebanon remained a merchant republic witnessing no land reform or state-led industrialization. Opposition there was, but from the 1960s the circulation of money from oil rent was to strengthen the hand of merchant and banking capital.  On the ground with the defeat of left and Arab nationalist forces in the long civil war (1975-1990), Israeli occupations, and repeated bombardment, those whose parents had worked in agriculture in the south moved not just to Beirut but increasingly to Africa (as mechanics, security guards and traders).  Since the early 1990s and especially after the final Israeli withdrawal in 2000 they have returned to villages of the region. With money earned outside they may then acquire plots of formerly agricultural land on which, so long as served by a road, Lebanese planning laws allows the owner to build a two-story bungalow on twenty percent of the surface area. Virtually none of South Lebanon has any zoning restrictions.  The landscape remains a varied one, structured by the long history of land tenure, and increasingly dramatically pock-marked by large-scale and unregulated quarrying for the country’s construction boom.  Yet given overall dependence on remitted income from (largely male) labour in Beirut and abroad, and the very restricted compass of any workshop and agricultural production by which family reproduction is internally assured, it makes little sense to speak of agrarian history.  At issue today is rural history wherein the forms of capital are continuous with those of the city, albeit spatially differentiated.

Below are some of my publications which may be of interest for background or future reading.

Bilad as-sham

1992    ‘Shareholders and the state: representing the village in the late 19th century land registers of the Southern Hawran’, in T. Philipp (ed.), The Syrian Land in the 18th and 19th Centuries, Vol. 5, Berliner Islamstudien, Stuttgart, Franz Steiner Verlag, pages 217‑238.

1996    ‘La propriété dite musha` en Syrie: une note analytique à propos des travaux de Ya’akov Firestone’, in the special issue ‘Biens communs, patrimoines collectifs et gestion communautaire dans les sociétés musulmanes’, Revue du Monde Musulman et de la Méditerrannée, vol. 79-80/1-2, pages 267-281.

2004    R.A. Pottage and M. Mundy (editors) Law, Anthropology, and the Constitution of the Social: Making Persons and Things, in the series Cambridge Studies in Law and Society, Cambridge University Press.

2007    M. Mundy and R. Saumarez Smith, Governing Property, Making the Modern State: Law, administration and production in Ottoman Syria, Library of Ottoman Studies 9, London, I.B. Tauris Publishers.

Bilad al-yaman

1985    ‘Agricultural development in the Yemeni Tihama: the past ten years’, in B.R. Pridham (ed.), Economy, Society and Culture in Contemporary Yemen, London, Croom Helm, pages 22‑40.

1995    Domestic Government: Kinship, community and polity in North Yemen, London, I.B. Tauris.

2013 (in print) M. Mundy, A. al-Hakimi,  F. Pelat, ‘Neither security nor sovereignty: the political economy of food in Yemen’, in press as Chapter 6 of Food Security and Food Sovereignty in the Arab World, eds. M. Kamrava and Z. Babar, CIRS Publications forthcoming with Hurst.

My co-author’s work on property

1996 Rule by records:  Land registration and village custom in early British Panjab, Delhi: Oxford University Press.

2004 “Mapping landed property: a necessary technology of imperial rule?”, in Huricihan Islamoğlu (ed.), Constituting modernity: Private property in East and West, London: I.B. Tauris, for the European Science Foundation, pp. 149-179.

Land grabs and (under)development: the struggles of small farming in the context of neo-liberalism

Ray Bush – University of Leeds – Thimar Network

This presentation will locate the debate about land grabs in the broader context of small farmer futures. It will first recap the extent of land grabs in the contemporary period and highlight both the continuity and the discontinuities in that. Second we will try and situate the discussion about land in the context of agrarian questions: who owns what?, who gets what? What do they do with it? And we can also add to this not only the broad suggestion to include what do they do to each other? but what are the relations of production that emerge or are shaped by land grabs?  This is not only an empirical question but one that goes to the heart of the agrarian question, namely what is the future for small farmers in capitalism? To pose this is to ask why is it that small farmers persist in the context of land grabs in the Global South at a time of ecological and financial crisis. We then briefly discuss the importance of land in the epoch of neo-liberal globalisation before examining patterns of capitalist incorporation and rural transformation in Egypt.

This presentation is intended to contribute to the debate about rural transformation during The contemporary phase of crisis capitalism. This is a crisis capitalism that seeks to promote increased productivity and global competitiveness. In doing so it seeks to break down the barriers to exploitation of labour irrespective of the cost involved for particular capitals.  It is in this logic of competiveness that we can identify the causes of the current phase of dispossession in the Global South. This presentation is intended to contribute an agenda for on-going research and to also present an argument that small farming and farmers is an integral feature of combined and uneven development.  We will argue that there is an imperative to defend the rights, livelihoods and well-being of small farmers against corporate incursion and state led marginalisation. This is not an apriori imperative but one that emerges from the analysis of the destructive pressures on agrarian political economy. These are pressures of dispossession of small farmers that is nowhere compensated for by employment either within the countryside or outside. We will argue the need to understand the complexity of small farming and advance the case of how it can be a vehicle for food security and sovereignty because the global pressures for accumulation through encroachment promote persistent inequality internationally and accelerated inequality locally.

We will argue that the distinction between the terms food security and food sovereignty is often false. It has become a mantra of difference between the advocacy of corporate food regimes or farmer rights but this distinction is not always appropriate or clear. Most of the debate has been in relation to the extent and character of the grabs, the use to which the land has been put, levels of displacement and so on. And this debate has been set by IFIs, NGOs and newly emerged pan peasant movements like Via Campesina. We want to ask different questions about the issues of land grabs in relation to the role that they are taking or can be seen to take within global capitalism. We also want to ask what the implications are for the character of small farmer agriculture in general and in Egypt. How have land grabs been problematized and how useful is the debate about grabs in unpicking the issues of farming livelihoods. Do we need to sharpen an understanding of labour and farming; of the relationship between town and countryside, and how do we understand the dynamic of capitalist development in agriculture, the high prices of food and pressures of depeasantisation in the global south. This touches the heart of not only what constitutes the poor farmer and what his and her longevity is in the context of globalisation but also in the context of capitalisation of world nature. We will explore the recent debate about land grabs and ask why it is that the impact on small farmers has been neglected. And what is the relationship if any between these big debates and the empirical realities in Egypt and the debate there about food security. Is there a debate about intensification of land use, extension of the land frontier and with what relationship with peasants and food security-sovereignty. In raising these issues we will be drawn into the debate about what constitutes the small farmer, what the agency for contesting rural relations of production is and what do land grabs mean for development broadly defined.

Green Mirage Documentary – 39 min – 2012

Habib Ayeb – Università Paris 8 – Thimar Network

A Film By Nadia Kamel – Produced by Habib Ayeb & Nadia Kamel (snooze production) Tunisia / Egypt Story Research & Presentation Habib Aybe Editor Catherine Mabilat Post-production Daydream – Aroma – Collage Music Tunisian Traditional Anonymous Filmed between 2009 & 2010 in Demmer village and the semi-arid region of the oasis of Gabes in the south of Tunisia.

Desertification and food crisis have been resulting from our “modern successful development” policies. Habib an academic geographer and ecologist, takes us off the frenetic mentality of ‘maximum economic development’ and the warped ‘experts recipes’ to Demmer, his natal village in the semi-arid region in the south of Tunisia where houses are dug underground with zero energy highest quality climatic moderation and agriculture is blooming with a few drops of annual rain. We discover what we are missing in our intensive development models: Demmer is a rare living trace of the ‘genius of management of resources’, a timeless necessity fading away.

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